Prologo

Castellum Arbor Felix, est del Reno - Metà Marzo, Anno 847 Ab Urbe Condita

Il vento si infilava tra i tronchi spogli come un ladro notturno, graffiando le cortecce e portando l’odore rancido di terra zuppa e morte. L’inverno non voleva morire. Il gelo mordeva ancora le ossa, scivolando sotto le armature come lame d’acqua gelata. Sopra, un cielo basso, carico di nubi livide, sembrava pronto a collassare sulla foresta come un sepolcro.

Qui, negli Agri Decumates, Roma non era che un sussurro arrogante. Le mura di legno rinforzato scricchiolavano al vento, le torri di guardia si ergevano scheletriche contro il cielo. Lontano dai marmi di Roma, questo era il bordo del mondo: un confine di fango, ferro e sangue, dove ogni respiro poteva essere l’ultimo. Roma imponeva la sua ombra, ma il caos barbarico era ovunque.

Il castellum era un pugno chiuso nella foresta, tenuto stretto dalla paura. I legionari controllavano, sorvegliavano, contavano i giorni. E ogni notte si chiedevano se la prossima sarebbe stata l’ultima. Nessun rinforzo. Nessuna gloria. Solo freddo, attese, e il battito regolare della morte che avanzava tra gli alberi.

La guarnigione, ridotta di numero, era composta da una centuria sottodimensionata di legionari e un contingente di ausiliari batavi. Uomini temprati dalla guerra, ma logorati dalla monotonia di un inverno passato tra le palizzate. Il centurione Publio Atilio Regulo, un veterano dalla pelle segnata dalle intemperie e dagli anni di guerra, scrutava l’oscurità oltre il perimetro del forte con un cipiglio grave. Qualcosa non andava. Il Reno era sempre stato una linea fragile tra la civiltà romana e il caos barbarico, ma quella notte c’era qualcosa di diverso nell’aria, un presagio oscuro che gli stringeva lo stomaco in una morsa.

I legionari di guardia stringevano le lance, il respiro condensato in nuvole bianche nel gelo della notte. Tito Orso Varro, un giovane miles, si passò una mano sulla bocca nel tentativo di scacciare il torpore. Accanto a lui, Sesto Petronio, un veterano con più cicatrici che capelli, sputò nel fango e mormorò: "Odio questo silenzio."

"È meglio del fottuto gelo che ci siamo sorbiti tutto l’inverno," brontolò Varro, strofinandosi le mani. "Almeno non mi cadono le dita se piscio contro le mura."

"Piuttosto ti cadrà la testa se Regulo ti sente lamentarti," ribatté Petronio con un ghigno storto, prima di dare un calcio a un sasso nel fango. "Dimenticati Roma, ragazzo. Qui siamo fuori dal mondo. A chi cazzo importa di noi?"

Un’altra voce si unì al borbottio dei due uomini. Publio Atilio Regulo, con la sua solita gravità, si fermò accanto a loro con le braccia incrociate. "A chi importa?" ripeté con sarcasmo. "A chi pensi? Ai bastardi da questa parte del fiume. Se ci dimenticassero davvero, ci farebbero un favore."

Non fu un urlo a interrompere quella quiete irreale.

Fu un sibilo.

Una freccia sfiorò l’aria, e il giovane Tito Orso non ebbe il tempo di reagire. La punta si conficcò nella sua gola con un suono sordo, e l’uomo si afflosciò senza un grido, il sangue che sprizzava caldo sul terreno gelido. Un attimo dopo, l’inferno si riversò nel castellum. Dal buio emersero figure avvolte in pelli di lupo, le facce dipinte con spirali nere e rosse, i capelli intrecciati in nodi stretti e ornati di ossa. Non erano semplici predoni. Erano spettri della notte, creature emerse dall’oscurità per reclamare il sangue romano. Ma non era solo la loro furia a rendere l’attacco letale.

I primi legionari che tentarono di organizzare la difesa furono accecati dal bagliore improvviso delle torce lanciate oltre la palizzata. Le fiamme presero rapidamente, alimentate da otri di pece che i guerrieri tigurini avevano portato con sé. L’aria si riempì del crepitio del legno secco che bruciava e dell’odore acre del fumo nero che si alzava nel cielo invernale.

Le porte vennero divelte con la furia di una tempesta, mentre le mura tremavano sotto il calore delle fiamme e il panico si diffondeva tra i difensori. Il clangore delle armi rimbombava tra le torri in rovina, i gladii romani scintillavano sotto la luna mentre cercavano disperatamente di opporsi alla furia dei barbari. Il sangue schizzava ovunque, spruzzando le mura e mescolandosi al fango sotto i piedi dei combattenti. Un legionario con la gola tagliata rantolava a terra, le mani artigliate sul collo mentre il sangue gli zampillava tra le dita come un vino maledetto. Gli occhi spalancati, colmi di terrore, fissavano un punto che non esisteva più. A pochi passi, un altro cadeva in ginocchio, le viscere che fuoriuscivano come spaghi viscidi dalle mani tremanti. Tentava di rimetterle dentro, disperato, come se potesse ricucirsi la vita con le dita. Ma non ebbe tempo. Una mazza chiodata gli piombò sul cranio con un tonfo secco, spezzando l’osso come legno marcio. Il suono sordo del cranio che cedeva si confuse per un attimo con il clangore delle armi, ma era diverso. Più profondo. Più definitivo. I legionari combattevano con disciplina, serrando le fila, ma ogni tentativo di resistenza veniva travolto dall'impeto brutale degli assalitori. Le asce barbariche spezzavano le loriche come legno fradicio, le mazze abbattevano uomini con la violenza di un ariete contro una porta. Il sangue scorreva tra le pietre del castellum, misto al fango e alla cenere. Alcuni ausiliari batavi tentarono di spegnere l’incendio, ma furono travolti prima ancora di comprendere cosa stesse accadendo. Il fuoco era diventato una seconda arma, costringendo i romani a combattere in mezzo al fumo soffocante, tra le ombre che si muovevano come spettri in una danza di morte.

I batavi cercarono di resistere, la loro disciplina temprata nelle battaglie lungo il Reno. Hruodland, uno dei veterani ausiliari, alzò la spada e urlò un ordine nella sua lingua, la voce roca di chi aveva visto troppi inverni passare nel sangue e nel fango. Con un colpo preciso abbatté il primo assalitore che gli si parò davanti, fendendo il cranio di netto con il suo spadone batavo. Rotolò poi di lato per evitare un colpo d'ascia, il respiro affannoso che si mescolava al fumo e alla nebbia della notte. Ma altri lo circondarono. Due, poi tre. Non era il loro numero a spaventarlo, ma la loro silenziosa determinazione. Con un ruggito, si scagliò in avanti, ma una lama si infilò sotto le sue costole, e il mondo divenne solo un lampo di dolore e oscurità.

Folkwald, un altro batavo, combatteva con la foga disperata di chi sa di non avere scampo. Il suo scudo intercettò un colpo mortale, mentre il suo pugio si conficcava nel ventre di un avversario. Con un calcio lo allontanò, il sangue che colava sulla sua armatura di cuoio e sul fango gelido sotto di lui. Ma il tempo gli era contro. Vide Hruodland cadere, e capì che tutto era perduto. Un colpo violento lo spinse indietro, costringendolo in ginocchio. Rialzò il capo per l'ultima volta, gli occhi puntati contro la figura rossa che si muoveva come un'ombra tra i guerrieri. Non chiese pietà. Non la ricevette.

Nel cuore della battaglia, Publio Atilio Regulo si trovò faccia a faccia con una visione che sembrava uscita da un incubo...

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