Il vento sibilava tra i tronchi spogli delle foreste a est del Reno, portando con sé l’odore umido della terra bagnata e il gelo della fine dell’inverno. Il cielo, coperto da nubi pesanti, sembrava schiacciare la terra con il suo peso plumbeo, e ogni soffio d’aria insinuava un freddo viscido nelle ossa, penetrando sotto le tuniche e le armature. La neve si era ormai sciolta quasi ovunque, lasciando il suolo un pantano di fango e resti vegetali in decomposizione. Il Castellum Arbor Felix, piccolo avamposto oltre il fiume, era immerso in un silenzio teso, rotto solo dal crepitio delle torce e dal ronzio lontano dei grilli notturni.
L'avamposto si trovava nei territori degli Agri Decumates, una regione di terre selvagge contese tra Roma e le tribù germaniche, un confine instabile tra il dominio dell'Impero e il caos barbarico. Qui, lontano dalle grandi città romane, la natura era indomabile e la guerra era un fatto quotidiano. Il castellum era un avamposto fortificato, costruito con mura di legno rinforzate e torri di guardia che si ergevano sopra la foresta circostante. Da qui, Roma controllava i movimenti delle tribù e tentava di mantenere un fragile equilibrio, imponendo il suo ordine con la costante presenza dei legionari.
La guarnigione, ridotta di numero, era composta da una centuria sottodimensionata di legionari e un contingente di ausiliari batavi. Uomini temprati dalla guerra, ma logorati dalla monotonia di un inverno passato tra le palizzate. Il centurione Publio Atilio Regulo, un veterano dalla pelle segnata dalle intemperie e dagli anni di guerra, scrutava l’oscurità oltre il perimetro del forte con un cipiglio grave. Qualcosa non andava. Il Reno era sempre stato una linea fragile tra la civiltà romana e il caos barbarico, ma quella notte c’era qualcosa di diverso nell’aria, un presagio oscuro che gli stringeva lo stomaco in una morsa.
I legionari di guardia stringevano le lance, il respiro condensato in nuvole bianche nel gelo della notte. Tito Orso Varro, un giovane miles, si passò una mano sulla bocca nel tentativo di scacciare il torpore. Accanto a lui, Sesto Petronio, un veterano con più cicatrici che capelli, sputò nel fango e mormorò: "Odio questo silenzio."
"È meglio del fottuto gelo che ci siamo sorbiti tutto l’inverno," brontolò Varro, strofinandosi le mani. "Almeno non mi cadono le dita se piscio contro le mura."
"Piuttosto ti cadrà la testa se Regulo ti sente lamentarti," ribatté Petronio con un ghigno storto, prima di dare un calcio a un sasso nel fango. "Dimenticati Roma, ragazzo. Qui siamo fuori dal mondo. A chi cazzo importa di noi?"
Un’altra voce si unì al borbottio dei due uomini. Publio Atilio Regulo, con la sua solita gravità, si fermò accanto a loro con le braccia incrociate. "A chi importa?" ripeté con sarcasmo. "A chi pensi? Ai bastardi da questa parte del fiume. Se ci dimenticassero davvero, ci farebbero un favore."
Non fu un urlo a interrompere quella quiete irreale.
Fu un sibilo.
Una freccia sfiorò l’aria, e il giovane Tito Orso non ebbe il tempo di reagire. La punta si conficcò nella sua gola con un suono sordo, e l’uomo si afflosciò senza un grido, il sangue che sprizzava caldo sul terreno gelido. Un attimo dopo, l’inferno si riversò nel castellum. Dal buio emersero figure avvolte in pelli di lupo, le facce dipinte con spirali nere e rosse, i capelli intrecciati in nodi stretti e ornati di ossa. Non erano semplici predoni. Erano spettri della notte, creature emerse dall’oscurità per reclamare il sangue romano. Ma non era solo la loro furia a rendere l’attacco letale.
I primi legionari che tentarono di organizzare la difesa furono accecati dal bagliore improvviso delle torce lanciate oltre la palizzata. Le fiamme presero rapidamente, alimentate da otri di pece che i guerrieri tigurini avevano portato con sé. L’aria si riempì del crepitio del legno secco che bruciava e dell’odore acre del fumo nero che si alzava nel cielo invernale.
Le porte vennero divelte con la furia di una tempesta, mentre le mura tremavano sotto il calore delle fiamme e il panico si diffondeva tra i difensori. Il clangore delle armi rimbombava tra le torri in rovina, i gladii romani scintillavano sotto la luna mentre cercavano disperatamente di opporsi alla furia dei barbari. Il sangue schizzava ovunque, spruzzando le mura e mescolandosi al fango sotto i piedi dei combattenti. Un legionario con la gola squarciata si afferrò disperatamente la ferita, gli occhi spalancati mentre cercava di trattenere la vita che gli scivolava via tra le dita. Un altro, colpito all’addome, cadde in ginocchio, cercando di tenere dentro le viscere con le mani tremanti, mentre un guerriero tigurino gli spaccava il cranio con una mazza chiodata, il suono delle ossa frantumate sovrastava perfino il fragore della battaglia. I legionari combattevano con disciplina, serrando le fila, ma ogni tentativo di resistenza veniva travolto dall'impeto brutale degli assalitori. Le asce barbariche spezzavano le loriche come legno fradicio, le mazze abbattevano uomini con la violenza di un ariete contro una porta. Il sangue scorreva tra le pietre del castellum, misto al fango e alla cenere. Alcuni ausiliari batavi tentarono di spegnere l’incendio, ma furono travolti prima ancora di comprendere cosa stesse accadendo. Il fuoco era diventato una seconda arma, costringendo i romani a combattere in mezzo al fumo soffocante, tra le ombre che si muovevano come spettri in una danza di morte.
I batavi cercarono di resistere, la loro disciplina temprata nelle battaglie lungo il Reno. Hruodland, uno dei veterani ausiliari, alzò la spada e urlò un ordine nella sua lingua, la voce roca di chi aveva visto troppi inverni passare nel sangue e nel fango. Con un colpo preciso abbatté il primo assalitore che gli si parò davanti, fendendo il cranio di netto con il suo spadone batavo. Rotolò poi di lato per evitare un colpo d'ascia, il respiro affannoso che si mescolava al fumo e alla nebbia della notte. Ma altri lo circondarono. Due, poi tre. Non era il loro numero a spaventarlo, ma la loro silenziosa determinazione. Con un ruggito, si scagliò in avanti, ma una lama si infilò sotto le sue costole, e il mondo divenne solo un lampo di dolore e oscurità.
Folkwald, un altro batavo, combatteva con la foga disperata di chi sa di non avere scampo. Il suo scudo intercettò un colpo mortale, mentre il suo pugio si conficcava nel ventre di un avversario. Con un calcio lo allontanò, il sangue che colava sulla sua armatura di cuoio e sul fango gelido sotto di lui. Ma il tempo gli era contro. Vide Hruodland cadere, e capì che tutto era perduto. Un colpo violento lo spinse indietro, costringendolo in ginocchio. Rialzò il capo per l'ultima volta, gli occhi puntati contro la figura rossa che si muoveva come un'ombra tra i guerrieri. Non chiese pietà. Non la ricevette.
Nel cuore della battaglia, Publio Atilio Regulo si trovò faccia a faccia con una visione che sembrava uscita da un incubo...
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